Tutti i giorni, dopo molte ore separate, chiedo curiosa a mia figlia com’è andata la sua giornata.
<Amore! Com’è andata oggi?> domando sorridendo.
<Béne> risponde lei, misurata, ricambiando il sorriso.
<Cos’hai fatto oggi?>
<Giocato.> dice, come un’adolescente ermetica che non vede l’ora di rendicontare per filo e per segno il suo sabato sera.
Io la guardo intenerita, pensando a quella porzione enorme di giornata che mi sfugge, a tutte quelle buffe espressioni, le piccole conquiste, le molteplici attività che non posso godermi, cui non mi è possibile condividere con lei, consapevole del fatto che, adesso, più che di raccontare, abbia voglia di dedicarsi alacremente a nuove attività strettamente collegate con lo smantellamento della casa, fino all’ora d’andare a dormire.
C’è un momento, però, la sera, in cui mia figlia fa una sorta di adrenalinico ed energico rush finale, prima di lavarsi i dentini, infilare il pigiamino e metterci a nanna.
Quel momento, nonostante la stanchezza, lo aspetto come un cercatore di funghi attende il suo porcino da cinquecento grammi pulito o un tartufaio stanare il suo prezioso tubero.
<Mamma!> mi intima perentoria, a un certo punto < siediti lì, sul tappeto. QUI!QUI!> mi sollecita accucciandosi e battendo la manina a terra.
Io mi accomodo felice, e la guardo, rapita, mentre lei comincia a cantare, a recitare pezzi di filastrocche, a rievocare piccole parti della sua giornata.
< Nanna, asilo, scarpine, shhhhhh, vuoi panino?! Il coccodrillo, come fa? Fa la nanna! Non c’è il luuuuupoooo, noooo, non c’èèèè> scandisce ora con la voce di Topolino, ora con il timbro del Gabibbo, agitando l’indice, poi scattando in piedi, per poi, alfine, ripiombare rumorosamente seduta.
Ed eccolo lì, un adorabile potpourri di immagini, canzoni, esperienze, persone, amicizie, impressioni ed emozioni che riaffiorano al calar della sera, amabilmente, come ninfee sul filo dell’acqua.
Non c’è un filo storico, un andamento ordinato, una conclusione né un inizio; non ci sono domande e non ci sono risposte: un po’ corre e un po’ s’accomoda, un po’ canta e poi racconta.
Io assimilo quei momenti come fossero prodigiose vitamine.
A volte vorremmo così disperatamente conoscere, sapere, partecipare, e puntualmente non riceviamo gli esaustivi rendiconti che desideriamo: magari perché il nostro bambino parla appena, oppure perché più che raccontare, quello desidera fare.
Ma se tendiamo l’orecchio più sensibile, quello del cuore, se ci sintonizziamo in un particolare momento giusto, quotidiano, messo lì, tutti i giorni, magari fra la veglia e il sonno, potremo godere in diretta di un piccolo assaggio profondissimo e vitale di quotidianità dei nostri cari: piccoli attimi di contemplazione ammirata di divertenti monologhi di mani a mimare rondini, a figurare pulcini che fanno capolino dal guscio, salti di ranocchie coraggiose e cannocchiali invisibili appoggiati con attenzione all’occhio destro, a scrutare l’orizzonte.
Io aspetto tutti i giorni quel racconto fatto di risposte a domande che non saprei nemmeno porre; narrazioni brevi, sconclusionate e prevalentemente urlate, oppure impercettibilmente sussurrate: non è vero che non mi dici niente, tu dici veramente tutto, parlando una lingua meravigliosa, fatta di gesti, parole e note, un idioma impregnato di te, quella di tutti i giorni, di ogni meravigliosa ora, di cui è composta ogni singola, importantissima giornata.
Immagine Manon de Jong