Pensavo che ultimamente “Storie di Parodia Quotidiana” parla molto del mondo della maternità anche se in realtà non è nato per specializzarsi sulla questione: il fatto è che sono diventata mamma da quasi un anno e negli ultimi mesi mi sono dedicata praticamente solo alla mia bambina, perciò capirete bene che i miei argomenti per ora sono abbastanza ridondanti, per così dire, perciò non me ne vogliate.
Questa poi, è una storia importante, che mi sta molto a cuore e che progetto da mesi di scrivere.
Ho deciso di procedere ora, in quanto si sta avvicinando il periodo durante il quale ho vissuto l’esperienza di cui vorrei rendere parte chi avrà voglia di leggere un resoconto non troppo esplicito ma neppure eccessivamente taciuto e camuffato (UDITE, UDITE) del parto.
Due sono i motivi per la quale questo racconto è così rilevante per me: primo, certamente, per l’evidente e comprensibile intensità dell’occasione che ho vissuto e, secondo, per il fatto che poco prima del fatidico momento me ne stavo a ricercare esperienze e racconti online per figurarmi almeno un po’ ciò che mi sarebbe accaduto, chiedendo a fratello Google come sarebbe iniziato il tutto e ricevendo solo risposte allucinate ed allucinanti, per cui ho pensato che un racconto spassionato sarebbe potuto interessare a qualcuno attualmente nella medesima posizione.
In realtà,io, qualche infarinatura sull’argomento l’avevo già ricevuta ed anche da fonti attendibili: avevo svolto infatti il corso preparto e l’ostetrica aveva rendicontato in modo esauriente e competente ciò che sarebbe avvenuto. Inoltre, dopo aver rivisto per l’ennesima volta Lost, ed essersi imbattuto in una scena che fino a quel momento l’aveva completamente lasciato indifferente, che trattava di una donna incinta che si era trovata a dover partorire in un bosco sola con il marito con esiti (PERALTRO) disastrosi, Claudio aveva deciso che avremmo dovuto essere pronti a qualunque evenienza, e quindi se ne stava da circa un mese a visionare con espressione raccapricciata (simile a quella dello spettatore di “Non aprite quella porta”) orribili video su You Tube sul tema, scuotendo la testa alla fine di ogni cortometraggio e rivolgendo un sguardo rammaricato nella mia direzione dicendo in modo confortante “mamma mia amore, mi spiace per te”. Non da ultimo erano anni che guardavo “sedici anni e incinta” su Mtv, quindi avrei dovuto essere più o meno un Guru della materia.
Nonostante tutto ero sempre più perplessa e me ne stavo a cercare resoconti per placare la mia sete di conoscenza.
Non trovavo però, nulla che mi sembrasse utile.
Mi chiedevo come sarebbe iniziato il tutto, se avrei avuto il tempo di lavarmi i capelli e se sarei stata in grado di riconoscere le contrazioni. Cosa diamine si intendeva poi,per contrazioni?
Nel frattanto, avevo anche visitato le sale parto e avevo scorto profeticamente in tale location una raccapricciante immagine di me nuda come un verme, sbraitante e urlante orribili e indecorose contumelie, in un remake assai ispirato de “L’esorcista” del 1973. Oltre allora ad aver tantissimi quesiti, ero anche preoccupata di tre fattori fondamentali: primo, lo stare nuda davanti a tanta gente, dato la scarso ricorso al rasoio di quei mesi; due, la paura che mi sarei fatta la cacca addosso; tre,il terrore che sarei stata sboccata e violenta oltre che inopportuna e disdicevole nelle esternazioni verbali del dolore.
No, mia figlia non poteva nascere mentre imprecavo come un mozzo di una nave mercantile e strattonavo come un pupazzo di pezza il suo papà.
In un delirante circolo di interrogativi e proiezioni abbacinanti, arrivò il giorno in cui mi si ruppero le acque.
Non fu come me l’ero immaginato, pensavo sarebbe stata una cosa impetuosa e veemente, che mi faceva venire in mente a livello visivo (quando tentavo di figurarmi quell’eventualità) il “Gioco delle secchiate” di “Non è la Rai” che guardavo con mia nonna, quando da un momento all’altro le ragazze, dopo aver tirato la leva, si potevano aspettare una pioggia di Dietorelle in testa.
Invece per me fu solo un rivoletto flebile ma continuo, per cui comunque mi recai in ospedale.
La foto che allego, parla di una me ridanciana e per nulla agitata, qualche ora dopo l’accertamento del fatto che il rivoletto in questione fosse effettivamente il segno che il momento fosse giunto.
Dalla rottura delle acque, prima di qualunque intervento medico, si aspetta che qualcosa si metta autonomamente in moto e dato che io non sentivo il minimo dolore, me ne stavo spiaggiata in camicia da notte sul letto della mia camera all’ospedale, a compilare con grande dedizione ed entusiasmo con l’infermiera la lista di ciò che avrei preferito per pranzo e per cena ( crescenza o prosciutto cotto?) e a prescrivere a mio marito ciò che mi serviva dalla Coop ( “E prendimi il grana che ho la pastina a mezzogiorno, quattro banane se mi viene fame…poi creakers, i succhi per il travaglio e un dolcetto a tua scelta, tanto ormai la dieta può ritenersi bell’è che finita *grasse risate*”).
Quel giorno ci fu un tramonto magnifico, non ne avevo mai visto uno tanto bello. La stanza era colorata di rosa, rosso e arancio. La volta era tutta una sfumatura davanti alla quale rimasi a bocca aperta: quello era il cielo fiabesco che mi faceva gli auguri per la notte che mi attendeva.
La sera, fui spedita a dormire alle otto e Claudio a casa dato che nulla si stava ancora muovendo.
Mi svegliai all’una, per fare un monitoraggio: solo piccole contrazioni rilevate dall’aggeggio, ma io non sentivo ancora nulla.
Decisi di andare in bagno per fare pipì e così, da un
momento all’altro, con incredibile impeto e senza preavviso alcuno è cominciato
il “grande show”.
Potrei descriverlo inizialmente come un certo dolorino sospetto al basso
ventre, che faceva venire le gambe un po’ tremanti.
Piano piano, il dolore cresceva, e si tramutava in un
ciclico alternarsi di ondate di questo particolare male che raggiungeva un
culmine, per poi decrescere e acquietarsi momentaneamente e completamente
lasciandomi prendere il respiro.
Contando fra una contrazione e
l’altra cominciai ad accorgermi che il loro arrivo si stava facendo sempre più
regolare e frequente.
Era ora di chiamare il buon Claudio.
A tentoni raggiunsi il letto e mi ci appoggiai di sghimbescio in quanto proprio in quel momento fui trapassata da una nuova contrazione; cercai il telefono rovesciando rovinosamente tutto ciò che avevo collezionato sul comodino posto al fianco del mio giaciglio, con un occhio misi a fuoco il suo nome sullo schermo e, una volta avviata la chiamata, gli mugugnai che era giunto il momento di abbandonare la branda, per venire ad assistermi.
“Arrivo subito!”disse.
Quando giunse, ero già in sala parto, seduta con espressione drammatica su una di quelle palle giganti che si usano in palestra, in attesa di entrare nella vasca con l’acqua calda per proseguire lì il travaglio.
“Ciao amore! Come va?” mi chiese.
Gli rivolsi uno sguardo greve agitando una mano davanti al viso: “mmmmmh, un male!” bofonchiai.
Tutto ciò che accadde dopo vorrei descriverlo solo tramite immagini:il sollievo infuso dall’acqua calda; la voce, il tocco affettuoso, i sussurri, i consigli materni e le esortazioni dell’ostetrica; il caldo, il sonno, quel dolore che come una coperta spessa lambiva tutto il mio corpo e quell’irrefrenabile necessità di spingere;Claudio che dirigeva le fasi di respiro con grande professionalità mentre si soffiava il naso perché aveva il raffreddore, il silenzio e la discrezione della notte, la sensazione d’essere un animale in una grotta ( tipo UN’ ORSA, per intenderci), perché il parto è una di quelle cose della vita ancora primitive e originarie che accomuna tutte le donne ( e i mammiferi,almeno credo) di ogni tempo nonostante tutti i progressi; lo sforzo di spingere così forte che ti sembra di essere un cannone (più che la donna cannone), gli sbadigli e la stanchezza di chi mi assisteva, perché questo momento è un’attesa, un ascolto, un assecondare il corpo, senza possibilità di intervento o velocizzazione.
Acconciata signorilmente come un membro dei Kiss e sudata come un’anatra laccata al forno, tutti i prefissi voti di morigeratezza e pudicizia erano sfumati: me ne stavo a vagare nuda come una scimmia, appesa da un poggiolo ad un altro, rifiutando qualunque proposta di infilarmi un qualsivoglia lembo di vestiario.
Il tempo passava lentamente, scandito dal ticchettio dell’orologio appeso al muro e dal battito dei nostri cuori.
Così passarono, lentissime, le ore.
Poi, finalmente, mentre l’alba faceva capolino e dopo l’ennesima fortissima spinta, fece capoccella la testa della nostra Lea che alla successiva si palesava finalmente con tutto il suo splendido corpicino.
Come descritto a suo tempo dalla mia amica Elena, la sensazione è esattamente quella che si proverebbe se immaginaste d’essere uno scolapasta umano gigante.
Mio marito aveva assistito alla scena frontalmente, e se ne stava ammutolito dallo stupore a boccheggiare come un pesce.
Quando misero Lea fra le mie braccia io e Claudio rimanemmo a contemplarla, rapiti.
Era incredibile, una bambina fatta e finita, piombata, da un momento all’altro, nelle nostre vite, colmandole d’amore.
“Amore, siamo in Valsesia, non alle Hawaii come ti avevamo detto dal pancione”. Dissi accarezzando quelle piccole dita dalle unghiette in miniatura che parevano trasparenti. Apriva e chiudeva gli occhi lentamente, come a capacitarsi anch’essa di ciò che la circondava.
Anche lei aveva certamente passato una notte movimentata, considerando in quali angusti passaggi aveva dovuto insinuarsi per potersi congiungere finalmente alla sua famiglia: “sei stata bravissima, piccola”.
Siamo state lì, strette, a goderci l’un l’altra assaporando un’incredula, nuova felicità: tutto il male e la fatica erano magicamente scomparsi, non appena la nostra bambina era nata.
Erano le 7.03 di giovedì 5 ottobre 2017.
Benvenuta, amore mio.
Più tardi, tornai in stanza con la camicia da notte tutta sporca di sangue, camminando incerta sulle gambe tremanti e scuotendo trionfalmente le mani unite a conchiglia all’altezza delle orecchie a Mo’ di festeggiamento alla Rocky Balboa, mentre le ostetriche del cambio turno mi facevano i complimenti e gli auguri e Lea veniva visitata. Mi sentivo gratificata e soddisfatta come avessi scalato con successo il Nanga Parabat o l’Annapurna scalza, a mani nude e senza allenamento.
“Amore, meglio che dormo un po’ che ho passato una notte faticosissima senza chiudere occhio” disse Claudio una volta in stanza, sprofondando nella poltrona dirimpetto al mio letto.
Bene, ecco fatto.
Posso dire che il parto è stato un’esperienza davvero unica, profonda e intensa. Meravigliosa. Catartica.
Certo, non è la strada all’orto, non voglio farla troppo semplice, però ha la sua innegabile bellezza.
Sono ben conscia che non tutti i parti sono così, ma mi sento di dire a tutte coloro che si apprestano a vivere l’esperienza,di non dar conto a chi cerca in tutti i modi di spaventarvi con resoconti splatter e intimidazioni raccapriccianti, perché ogni parto è a sé, a prescindere da quello che vi diranno.
Per quelle spaventatissime, che preferirebbero un cesareo, da esperienze raccontatemi posso dire, seppur da profana, che nemmeno quello è una passeggiata di piacere,anzi, tutt’altro.
Per quelle invece, che debbono farlo obbligatoriamente e magari non vorrebbero (sempre in virtù di resoconti coinvolgenti di chi lo ha vissuto) l’emozione è la medesima di uno naturale, anche se la dinamica diversa.
Che dire, a raccontarlo mi batte ancora forte il cuore.
Sono davvero contenta d’aver scritto questa storia in Parodia Quotidiana.
Mi piace immaginare di aver fugato qualche piccolo dubbio, d’aver dato un’idea anche spicciola della dinamica, fatto sorridere o anche solo rispolverato ricordi importanti e appassionati a qualche altra mamma, come me.