Premettendo che mia figlia è una bimba amabile, la quale dice “Grazy!” in modo buffo e spiritoso ogni volta che le passi qualcosa e che prevalentemente si mostra e rapporta con il mondo in maniera pacifica, COMUNQUE, talvolta, magari a causa della stanchezza o di un gioco che “non fa quello che dice lei” le scappa la pazienza come fosse un piccolo Vittorio Sgarbi.
Le 17.15.
Me ne sto al supermercato davanti al banco dei salumi, aspettando il prosciutto cotto,cercando di intrattenere mia figlia, che ho appena prelevato dal nido: proprio per questo motivo so che è stanca, e quindi è come una bomba ad orologeria, un solo piccolo errore da parte mia potrebbe non solo non essere facilmente perdonato, ma rischierebbe di provocare conseguenze ingestibili.
In quel momento, ho ben chiaro di essere in precario equilibrio, in bilico fra l’esigenza di essere un’intrattenitrice coinvolgente e l’urgenza di non divenire eccessivamente stimolante:devo far sì che mia figlia non si annoi MA, al CONTEMPO, impedirle di entrare in eccessiva confidenza con ciò che la circonda, così che non decida di mettersi a toccare tutti gli articoli del negozio, o di spalmarsi tipo sogliola sulla teglia imburrata, appresso alla vetrina dei formaggi.
Sono come un’equilibrista, un giocoliere attento,una mentalista che cerca di prevedere astutamente la prossima mossa della sua bimba di un anno e mezzo.
Il mio obiettivo è prevenire ogni sua reazione, assolutamente, anche perché sono ben conscia di non essere agile nei movimenti: come al solito, sono entrata per prendere il latte e invece ho fatto la spesa per garantire il sostentamento di tutto il cast di “sette sotto un tetto” per un mese, e mi ritrovo terribilmente zavorrata con una borsa con più angoli di un prisma ottagonale irregolare, col peso specifico di un blocco di marmo di Carrara.
Ma ahimé, il mio destino è già segnato.
Basta solo infatti una piccola distrazione, un (all’apparenza) innocuo “NO”, pronunciato con un vocalizzo appena più stridulo, ed ecco compiersi il terribile presagio: mia figlia si indigna e si indispone irrimediabilmente.
Per stato di indisposizione intendo il capriccio cosmico, l’ira funesta, l’idrofobia incontrollata e incontrollabile, rappresentata magistralmente sia con contorsioni acrobatiche, che tramite urli tipo stridii di un flessibile con tanto di scintille, con un caratteristico suono penetrate e fragoroso parificabile al grido che la volpe rossa utilizza per intimidire i rivali, o al richiamo stridulo e improvviso del Brabagianni incazzato.
Ormai è fatta:quella è peggio di un boss della malavita che non perdona l’affronto. L’aggravante della stanchezza la rende inoltre sorda ad ogni mezzuccio per farla calmare: parole, carezze, suppliche, mostra con descrizione d’ogni articolo luccicante presente all’interno dell’esercizio commerciale.
Quella è furente, urlate e si arzigogola e s’avvolge come un’anguilla.
Non mi resta che afferrarla come una palla da rugby, e cercare di correre a meta (ovvero fuori dal negozio), il tutto sotto lo sguardo e gli inutili interventi degli altri clienti che tentano di suggerirmi metodi per farla calmare, cercando di sovrastare le urla della mia bambina.
Dico “inutili” perché proprio non li avverto: le urla di mia figlia sono così potenti che sono evidentemente stordita come dopo una potente deflagrazione.
Trascino la borsa della spesa alla cassa, scaravento sul rullo gli articoli e lancio il portafoglio alla cassiera, tipo giavellotto, urlando:”prendi quello che vuoi!”
Sono sudata, audiolesa, bordeaux e con l’occhio che traballa.

Vorrei solo alternativamente o piazzarmi con fare imperioso al centro della Conad ed emettere un ruggito mostruoso alla maniera del leone africano in mezzo alla Savana da far tacere anche la musica in filodiffusione, oppure sdraiarmi sul rullo della cassa e chiedere cortesemente di lasciarmi un attimo lì, per far sì che io possa recuperare la calma.
In modo del tutto miracoloso e insperato, riesco comunque ad uscire dal supermercato, con le borse strette fra i denti e il mio piccolo luccio umano che si dimena fra le braccia.
Tralasciando il drammatico passaggio dell’ingresso in auto, che si inaugura con rinnovati urli da lacerare l’atmosfera terrestre, e tentativi d’opposizione tramite strategici agganci alla portiera/carrozzeria con le piccole e forzutissime manine, ecco che riesco a sprofondare sbuffando come un toro, alla posizione di guida.
Mia figlia ora è assicurata al seggiolino, ed ha provvidenzialmente smesso di ribellarsi.
Emetto un nuovo sospiro, mentre lei tira su rumorosamente col naso.
“Mamma?”
“Cosa amore?” chiedo col fiato corto, girandomi verso di lei.
Quella sorride, con gli occhi ancora lucidi.
“MAO!” esclama.
Le sorrido anch’io.
Metto in moto, considerando con grande ed eroica imperturbabilità che non ho la più pallida idea non solo di quanto sia costata la spesa, ma soprattutto di dove essa sia.